Fra passato e presente
La data del 25 aprile riveste per molti un duplice significato: non solo la liberazione ma anche la preoccupazione per il difficile presente da affrontare. La guerra aveva messo la società di fronte ai pericoli che minacciano diritti e libertà della persona umana e reso vitale -in seguito all’errore di averla abbandonata- il ritorno dell’attività politica.
Il 25 aprile è stato (almeno così si è creduto), anzitutto, un ritorno alla libertà e alla democrazia; il popolo ha compreso la necessità di ripristinare una attività politica capace di distinguersi dall’ordinaria amministrazione per scongiurare nuovi pericoli come quello del totalitarismo appena sconfitto.
E’ data importante per la salvaguardia delle libertà individuali, per lo stato di diritto, per la sovranità popolare, per la pari dignità di tutti gli esseri umani, traguardi che oggi dovrebbero ritenersi consacrati nella nostra Costituzione e baluardi del nostro ordinamento giuridico.
Non si può, però, ricordare il passato senza guardare il presente e certamente, nonostante gli insegnamenti che avremmo potuto trarre dal 25 aprile, la guerra è tornata a essere reale e il presente è decisamente complesso, caratterizzato da crisi economica, crisi delle istituzioni, abbandono della politica a favore della nuova governance economica europea e globale, intelligenza artificiale (IA), sorveglianza e controllo. L’attuazione dei diritti e libertà della persona non è più così scontata quando le spese per sostenere gli interventi si scontrano con i dettami sulla necessaria crescita del PIL.
Eppure la Carta costituzionale aveva risolto definitivamente la dialettica tra capitale e lavoro a favore del lavoro (art. 1 Cost.), ponendo un netto freno all’oligarchia capitalistica che domina mercato e globalizzazione e che oggi ha annientato nuovamente politica e amministrazione.
L’approfondimento che segue vuole essere una riflessione sull’insegnamento che il 25 aprile può averci lasciato per comprendere il presente, tentando di allontanarci da superficiali definizioni di bene o male.
La dicotomia del bene e del male è sempre stata utilizzata come un sistema di controllo sociale e politico; il mondo è suddiviso in “buoni” e “cattivi” per giustificare il potere.
Colui che ha il potere e ci controlla assurge al rango di paladino del bene e insegna, incontrastato quando la politica abdica al suo ruolo, a etichettare gli avversari come malvagi.
Nello stesso modo si pone la qualificazione della realtà, sempre giudicata come giusta o ingiusta ma certamente spesso distante da quella che è la verità assoluta.
Quante notizie stanno circolando in questi ultimi anni in grado di porre forti dubbi sulla stessa storia che abbiamo studiato, sulla qualificazione di fatti, accadimenti, scelte governative (mi riferisco, per esempio, alle recenti notizie sui finanziamenti pagati da USAID).
Anche la giustizia si lega a una visione del bene che è influenzata da molteplici fattori: culturali, politici, religiosi, economici. La qualificazione discenderà dal peso che tali fattori sono stati in grado di imporre.
La giustizia universale è un paradosso, è mera ideologia imposta astrattamente che non tiene conto delle differenze, delle storie, dei contesti.
Eppure la globalizzazione pretende di fornire nuove definizioni universali di bene e di male.
Partiamo da un paese di nome Rorà
Rorà ha rappresentato il luogo di sfollamento di numerose famiglie ebree, si è distinto per la capacità dei suoi abitanti di discernere il bene dal male e la ferma volontà di opporsi a un sistema che non rispettava diritti e libertà della persona umana.
Come si legge dal sito del Comune, “Trovarono così sistemazione in affitto presso famiglie rorenghe le famiglie De Benedetti di sei persone, due famiglie Levi, rispettivamente di due e cinque, una Amar di tre, una Bachi di due, e Terracini di tre. Terracini pittore e scultore ha lasciato una documentazione molto interessante di quel periodo, Mario Levi e Carmela Mayo si inserirono attivamente nella Resistenza. Queste 21 persone, numero in sé poco rilevante ma significativo se si considera che la popolazione superava di poco le 200 persone, vissero ufficialmente come sfollati, naturalmente con documenti falsi, senza essere denunciati”.
Nessun “servo volontario” (per ricordare il lavoro di É. DE LA BOÉTIE, La servitù volontaria), nonostante il premio di denuncia potesse essere di grande aiuto.
L’8 novembre 2004, il Presidente della Repubblica ha conferito al Comune di Rorà la medaglia di bronzo al valore civile.
I suoi abitanti si sono fermamente opposti a un sistema che ritenevano ingiusto e hanno affrontato il difficile presente del dopoguerra.
Da allora il Paese è molto cambiato e pare quasi, a parte il ricordo legato a una medaglia, dimenticare l’importanza del suo patrimonio.
Ecco, quindi, la necessità di riflettere su quale insegnamento possiamo davvero trarre dal ricordo del 25 aprile, come lezione che non richieda esclusivamente di limitarsi a ripetere storia tramandata, imitando quanto spesso si fa delle lezioni ascoltate in aule universitarie.
Dobbiamo porre l’accento sul significato che protezione, solidarietà, attaccamento alla propria terra, valori, origini, cultura, esperienza rivestono e sul valore di una differente, come vedremo, nozione di patrimonio.
Come si direbbe a un bravo allievo, la lezione deve essere compresa, non ripetuta a memoria (immersione nella fattispecie).
Un dato è sotto gli occhi di tutti, i tempi in cui le “genti vive” popolavano e modellavano le campagne italiane sono definitivamente trascorsi (E. Sereni, Storia del paesaggio agrario).
A partire dal dopoguerra, con il piano Marshall (European Recovery Program) è stata determinante l’ingerenza statunitense nelle scelte politiche ed economiche nel nostro Paese, gli Stati Uniti investirono un’enorme quantità di risorse finanziarie per fornire assistenza militare ed economica all’Italia.
Lo spopolamento rurale risale proprio al periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, epoca di crescita esponenziale di tutti i settori produttivi.
L’agricoltura, che costituiva la principale occupazione, fu coinvolta dai poteri pubblici in un susseguirsi di riforme che rispondessero alle imposte esigenze di espandere rapidamente le produzioni e i consumi.
Da allora scelte politiche ed economiche si sono imposte al popolo sovrano, e permane ancora oggi, con l’attuazione del Recovery Fund attraverso il PNRR, quel famoso “vincolo esterno” a causa del quale la nostra sovranità risulta essere continuamente limitata da soggetti estranei al nostro ordinamento giuridico.
Prestito di denaro, risorse tecnologiche e tutela della democrazia sono i diktat per raggiungere lo sviluppo del capitalismo e il completamento della governance economica.
Abbiamo assistito al subentro della grande azienda agraria di stampo industriale e al conseguente asservimento delle piccole aziende contadine a conduzione familiare.
Decisiva, infine, l’importazione delle tendenze culturali che hanno convinto i più giovani ad abbandonare lo stile di vita delle aree rurali considerato ormai arretrato, a tutto vantaggio de contesto cittadino dominato dal potere dei consumi che in poco tempo ha deformato la coscienza del popolo e instaurato la cultura di massa.
In fondo sappiano bene che il mondo nordamericano ha sempre esportato modi di vestire e di esprimersi, così da consentire ai giovani di essere “trendy”, ma anche valori e mode di “perbenismo” come il woke, il green, la soft law, i nudge.
Nessuna considerazione è stata riconosciuta all’identità del contesto (umano e naturale) nel quale si sarebbero inseriti tali interventi innovativi, alla dimensione storico-relazionale tra l’uomo e il suo ambiente di vita (C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993).
La storia passata insegna che il denaro e il conseguente sviluppo socio-economico imposto hanno determinato un arricchimento fittizio e insostenibile.
L’abbondante denaro ha consentito di pagare l’importazione delle merci statunitensi, comportando contestualmente degrado ambientale e scardinamento degli schemi contestuali di coesione sociale quali reciprocità, condivisioni, scambi non mercantili e non professionalizzati.
Oggi, come allora, politica e amministrazione hanno agito per soddisfare gli interessi del grande capitale e attraverso i potenti mezzi di comunicazione hanno contribuito a diffondere e imprimere l’ideologia dominante; l’avvento della televisione ha reso semplice il controllo delle masse e la continua diffusione del mainstream.
Non dobbiamo, però, dimenticare che anche i terribili eventi imposti con il nazionalsocialismo (persino la Shoah) furono pianificati, organizzati e attuati con l’intervento e il contributo dell’amministrazione (A. TRAVI, Pubblica amministrazione burocrazia o servizio al cittadino?, Milano, Vita e Pensiero, 2022).
Ricordare la liberazione, ricordare il passato, deve farci riflettere sulle possibili derive di politica e amministrazione: la decisione di provvedere alla soluzione finale del problema ebraico fu assunta in una riunione alla quale presero parte dirigenti di tutti gli apparati pubblici coinvolti e per attuarla fu decisivo l’impegno capillare di alcune amministrazioni civili, per esempio nel settore dei trasporti ferroviari (A. TRAVI, op. cit.).
Scrive Fabio Levi (relazione al Seminario di studio L'applicazione della normativa antiebraica in Piemonte, Torino, 5 febbraio 1992). “Mi riferisco a quanto abbiamo noi stessi riscontrato riguardo alla rapidità e all’efficienza mostrate, soprattutto all'inizio, dall'amministrazione pubblica impegnata ad eseguire le direttive del governo in materia di razza; o alla silenziosa solerzia con cui in tutti gli ordini di scuola si diede corso alla sistematica espulsione di insegnanti ed allievi ebrei; per non dire infine dell'acquiescenza con la quale - con poche eccezioni - il mondo della cultura accolse la campagna antisemita, nonché le sue giustificazioni scientifiche”.
Nel prosieguo, quindi, alcuni approfondimenti per tentare di rispondere alla domanda posta dallo stesso Levi e non commettere nuovamente gli errori del passato anche se in un contesto rivisitato: “con quali giustificazioni, di fronte agli altri e di fronte a se stessi, in molli avallarono passivamente la politica antiebraica (….) che cosa spingeva ad avanzare quelle richieste? L'ossequio a una direttiva che peraltro in quel momento si intuiva appena? La paura di non trovarsi in tempo dalla parte giusta? La preoccupazione di perdere un'occasione importante per mettersi in luce? li bisogno di prendersela col più debole o di vendicarsi del vicino?”.
Il territorio tra piano Marshall e globalizzazione
Come già anticipato il fenomeno migratorio, guidato dalla stessa politica, ha necessariamente inciso anche sull’amministrazione del territorio e, in particolare, sulle decisioni pubbliche relative alla localizzazione dei servizi pubblici.
Si è così innescato un meccanismo di ridimensionamento dei servizi pubblici, necessariamente collegato, nella collocazione, ristrutturazione e sviluppo, alla densità di popolazione (clienti).
Ne è conseguita la chiusura delle scuole, il ridimensionamento dei negozi, dei trasporti e, come un circolo vizioso, ciò ha determinato un ulteriore incremento dell’emorragia demografica (A. DE NUCCIO, Amministrazione, territorio e dinamica demografica. Un caso paradigmatico: gli ecosistemi agricoli, in PA Persona e Amministrazione, 2024, 659 ss.).
Mercato e globalizzazione hanno preso il sopravvento sulla politica e la globalizzazione ha imposto una revisione anti essenzialista e anti identitaria.
I vincoli internazionali ed europei hanno ridimensionato le sovranità nazionali, imposto limiti alla spesa pubblica e incentrato l’attenzione sulla crescita del PIL, imponendo l’adeguamento della politica economica nazionale alle indicazioni dell’economia globale.
“Globalizzazione significa deterritorializzazione; di conseguenza, significa anche primato dell’economia a tutto detrimento della politica; di più, significa eclisse dello Stato e della sua espressione più speculare, la sovranità” (P. GROSSI, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro it., 6/2002, 151).
La persona è ormai identificata nella categoria dei “consumatori e utenti”: il primato del mercato, divenuto elemento unico per l’analisi e l’organizzazione sociale, impone il superamento della persona sovrana titolare di diritti e libertà fondamentali e, quindi, dello stesso Testo costituzionale.
Le popolazioni rurali, da comunità indipendenti di abitanti, dotati di saperi contestuali e appropriati di attivazione dei beni ambientali, sono gradualmente divenute semplici aggregazioni collettive di utenti, e soprattutto di clienti solvibili(I. MELONI, F. PARASCANDOLO, Dalla terra alla fabbrica, e ritorno. Esperimenti di attivazione delle risorse ambientali nella Sardegna interna, tra irruzione della modernità e pratiche collaborative, in Glocale, 13, 2017, 68).
Il passaggio da persona a cliente, fortemente pubblicizzato dalle teorie neoliberali, ha portato con sé la fiducia generalizzata nel progresso, in un futuro di prosperità.
Tale fiducia generalizzata si basava quasi esclusivamente sul calcolo razionale economicistico che ha portato oggi al sopravvento del potere biopolitico. Tale potere si esprime attraverso forme che non appartengono in alcun modo alla sfera pubblica e sono da ricondurre al potere economico e tecnologico.
Il rischio, o per alcuni il pregio, di tali cambiamenti è stata la trasformazione del nostro ordinamento giuridico in un ordinamento dove l’interpretazione politica e amministrativa dei diritti e libertà fondamentali cede il passo a valutazioni affidate a modelli economici.
Credere in un governo globale che possa agire come arbitro dell’interesse generale internazionale e che sia legittimato alla produzione e alla tutela di beni pubblici globali è un paradosso.
Il rischio reale è che l’interesse generale sia confuso con l’interesse economico di imprenditori dominanti che determinano dove e come investire le risorse pubbliche.
Molto interessante quanto rilevato in merito ai territori sardi dove si è addirittura fatto ricorso alle teorie genetico-psico-antropologiche di Cesare Lombroso. Il richiamo a tali teorie aveva un duplice scopo: criminalizzare le comunità agropastorali della Sardegna fornendo supporto scientifico alla scelta politica modernizzatrice del Governo italiano al fine di rendere l’opinione pubblica più incline a giustificare e abbracciare le scelte di politica economica nazionale di massiccia industrializzazione (insediamento della petrolchimica di base al centro dell’isola. I. MELONI, F. PARASCANDOLO, Dalla terra alla fabbrica, e ritorno, cit.; I. MELONI, Da pastori a operai. L’industrializzazione di Ottana: effetti economico-sociali e impatto ambientale, Iskra edizioni, 2004, 11-40).
A questo punto è fondamentale domandarsi se siamo davvero eredi meritevoli di festeggiare il 25 aprile.
Per rispondere occorre comprendere il valore aggiunto che la storia ha concesso a tale particolare ambiente, costruendo il “giacimento culturale” di Rorà.
Come si stabilisce il valore di tale bene immateriale?
E’ importante riflettere sul fatto che la storia mantiene sempre legami con il presente, legami che sono molto stretti quando ci si occupa di territorio, un ambito dove le varie epoche si compongono e si fondono l’una nell’altra, lasciando tracce ben visibili. L’intreccio fra il passato lontano e l’oggi, nelle forme del paesaggio, è ben chiaro: si vede nei tratturi, nei canali, nelle strade, nei pilastrini votivi posti ai quadrivi, nei cavalcavia sopra le centurie (G. BONINI, Summer school Emilio Sereni. Storia del paesaggio agrario italiano. Il progetto, Istituto Alcide Cervi, 2010).
Il paesaggio che dà forma al paese è un insieme complesso di aspetti specifici che spaziano dagli elementi economici a quelli sociali, elementi produttivi ed ecologici, l’estetica. Imprescindibile per comprenderne il valore è l’attenzione alle attività umane che lungo la storia si sono intrecciate con politica, economi, fenomeni sociali, attività scientifica.
Storia e natura costituiscono l’identità del territorio montano e si oppongono alla percezione di chi non fa parte della comunità.
Per gli abitanti della città, infatti, il paesaggio montano è semplicemente luogo di evasione dalla realtà mentre per i bambini uno sconosciuto con il quale faticano a relazionarsi se non vi ritrovano elementi importati dal cotesto urbano (giochi, prodotti tipici dei grandi magazzini, luoghi di intrattenimento). La mente dei più giovani, infatti, resta incapace di collegare la vita agli aspetti del paesaggio di montagna, animali e piante compresi.
Globale vs particolare e non solo, il rischio della standarizzazione
Con la globalizzazione la finalità che si intende conseguire è l’indebolimento dell’identificazione con il territorio e soprattutto la passività nelle scelte politiche e amministrative imposte.
E’ sul piano globale, non più nazionale e tanto meno locale, che si vanno a definire le condizioni concrete entro cui si sviluppano i rapporti di potere e i diritti delle persone. (G. AZZARITI, Verso la democrazia attraverso i diritti, in Politica del diritto, n.1-2, 2013, 3).
Un tale cambiamento (deterritorializzazione e standarizzazione) è facilitato in primis attraverso l’intelligenza artificiale che facilita la perdita delle peculiarità locali per creare uno spazio omogeneo messo a disposizione da grossi imprenditori privati.
La deterritorializzazione è il processo in cui il territorio, quale “neoecosistema generato dal reciproco adattamento delle comunità insediate e dell’ambiente (...) vale tutt’al più come intralcio, temporaneo e rimovibile, alla libera circolazione dei capitali e delle merci (e delle persone come puri produttori e consumatori dei primi e delle seconde) e come tale (luogo, identità, comunità) viene rimosso, cancellato, soppresso”. (A. MAGNAGHI, Mettere in comune il patrimonio territoriale: dalla partecipazione all’autogoverno, in Glocale, 9-10, 2015, 145).
Al patrimonio, però, più essere data anche una definizione che esula dagli interessi economici.
Non è soltanto l’insieme dei beni che possediamo o quelli che abbiamo ereditato dai nostri ascendenti, quale proprietà effettiva che rileva per la disciplina sull’uso, trasmissione conservazione e tutela.
Il patrimonio, infatti, ha anche una connotazione di cui il legislatore si disinteressa, un valore non materiale ma astratto, spirituale, è metafora per comprendere il risultato, la relazione di passato e presente, individuo e collettività.
A tale definizione di patrimonio appartengono tradizioni, culture, usi, e persone; il nostro ruolo è quello di ricercare modalità consone per salvaguardare la trasmissione legittima di culture e di tradizioni, per tutelare i confini di appartenenza, la memoria delle generazioni precedenti.
Per potersi porre correttamente i problemi, o anche solo averne l’idea, senza smarrirsi nella costante emergenza e paura propagandate dai principali canali di informazione, è indispensabile comprendere il passato e, con tale cultura, analizzare il presente.
Le aree rurali spopolate sono state metodologicamente private di identità territoriale, hanno perso memoria dei legami di appartenenza di una determinata comunità al suo spazio vissuto, è svanita quella importante cultura del saper abitare e vivere la realtà locale.
Proprio quel sapere del passato ci renderebbe edotti degli effetti negativi dell’approccio globale.
Il ridimensionamento, o comunque il riposizionamento del ruolo dello Stato nazionale in un mondo attraversato trasversalmente da scelte compiute dalle istituzioni internazionali produce instabilità nel rapporto tra il territorio e la popolazione che vi risiede (L. RONCHETTI, Il nomos della deterritorializzazione, in Rivista di Diritto Costituzionale, 2003, 99 ss.).
“L’impossibilità, per i singoli Stati, di concorrere secondo forme politiche democratiche al governo del cyberspazio extraterritoriale nel quale si gioca la grande partita del potere globale spinge naturalmente la politica nazionale a ripiegarsi sulla dimensione locale, l’unica nella quale è ancora possibile compiere scelte direttamente e concretamente incidenti su aspetti rilevanti della vita collettiva. La politica nazionale riscopre così nel ‘locale’ i fattori decisivi per la produzione di identità e di appartenenza civica. Trova nei piccoli luoghi gli ingredienti che danno sapore alla cittadinanza, e che è arduo rintracciare nelle distanti e artificiali cittadinanze europea e globale” (G. SCACCIA, Il territorio fra sovranità statale e globalizzazione dello spazio economico, in Rivista AIC, 3/2017, 20).
L’industria ha spersonalizzato il rapporto produttivo, allontanando fattore umano e fattore naturale, metropolizzazione, urbanizzazione e globalizzazione devono essere contrastate attingendo dal patrimonio rurale affinchè l’esigenza di rispondere a bisogni essenziali, radicati nella natura umana crei nuovamente un’economia che risponda ai bisogni essenziali delle persone.
Per il diritto europeo del mercato è imprescindibile il possesso di tecnologie e competenze informatiche ma tale diktat è incompatibile con realtà rurale, marginalità demografica e condivisione delle regole infuse nella vita, norme a formazione cauta e condivisa, che si mettono continuamente alla prova nella loro bontà per garantire benessere, patrimonio in cui la collettività si riconosce e si ritrova.
Concludendo
Difficile parlare ancora di patrimonio nei termini qui considerati. Per l’attuale società globale l’adulazione conta più di ogni sentimento, prevalgono falsità e inganno resi semplici a diffondersi grazie alla realtà virtuale.
L’esteriorità ha completamente soffocato l’anima (il consumismo si è imposto in ogni settore) e ormai anche i rapporti umani hanno un prezzo poiché l’unico comando è il denaro che consente continuo acquisto di merce deteriorata.
Pressione psicologica, emergenza, paura e falsa inclusività hanno privato di identità e valori.
D’altra parte è indubbio che l’intelligenza artificiale potrà consegnare una nuova copia della Bibbia, completamente riscritta, sulla quale fondare la futura spiritualità, imponendosi come sostituto di Dio, un dio globale, capace di superare le differenze religiose.
Le smart city allontaneranno definitivamente dal paesaggio rurale, un cloud internazionale raccoglierà ogni dato al loro interno, digitalizzerà i corpi e influenzerà il comportamento dei cittadini (nudge).
In fondo è scontato per la governance economica ritenere non ci sia migliore soggetto rispetto all’intelligenza artificiale per adempiere al compito di individuare la soluzione migliore per tutti i cittadini: chi avrà la proprietà delle piattaforme potrà controllare le azioni delle persone, dirigendole verso soluzioni ritenute ottimali.
E’ sempre lo stesso principio dell'ingegneria sociale e della manipolazione del consenso: problema - reazione - soluzione.
Si crea una problematica (guerra, crisi, pandemia, furto di dati, terrorismo etc.), si attende la reazione pubblica e si offre poi la soluzione a un problema che è stato in realtà creato appositamente per garantire consenso alla soluzione, consenso che, in condizioni normali e senza paura, le persone avrebbero certamente rifiutato.
E allora ci si domanda quale significato potrebbe ancora avere una riflessione sulla montagna che spinga i suoi abitanti a ritrovarne il patrimonio.
La montagna ha conosciuto l’orrore del diritto applicato, la montagna non dimentica e non consente alla persona di dimenticare. In lei è rinchiusa la memoria ancestrale, non smette di richiamare, attraverso le epoche e i luoghi, tutti i saperi dell’umano.
La montagna è intrinsecamente interdisciplinare, coinvolge ogni sapere dell’uomo, ma nello stesso tempo unisce all’uno, alla sua maestosità imponendo conoscenza e ricerca.
La montagna impone il superamento dell’individuale e del contingente, costringe all’abbandono dell’esteriorità per la realizzazione personale.
E’ il luogo dove tutto cambia e, nello stesso tempo, tutto è eterno, perché il patrimonio è messaggio interiore, ciò che distingue l’uomo dall’intelligenza artificiale.
Il paesaggio rurale obbliga a restare ancorato alla verità assoluta e al repentino susseguirsi di sentimenti, non c’è bene e male ma entrambi si compensano trovando equilibrio: la grandezza della montagna, ma anche il silenzio e la solitudine, la sua inaccessibilità e il costante ritorno alla primordialità, quando si scatena l’energia delle tempeste.
Ma, nonostante i repentini cambiamenti tra cielo cupo, calgini e cieli in cui risplende il sole, resta sempre integralmente lei e consente di ritrovare il proprio quotidiano nel ripetuto susseguirsi delle stagioni.
E’ curioso riflettere sul fatto che, mentre nelle città ci si affida al diritto per trovare la soluzione giusta ed essere buoni, in montagna la sussistenza dipende (o è dipesa) principalmente dalle proprie capacità individuali e dalle proprie percezioni.
Ecco, la montagna rammenta la possibilità di una legge diversa, nel paesaggio l’uomo torna a riconoscersi umano e diviene capace di rileggere tutto con i propri occhi, abbandonando il mainstream.
E’ questo che insegna Rorà.
Gli ebrei hanno cercato nella montagna e nei suoi abitanti la rigenerazione del diritto, il patrimonio ha rappresentato il confine del giuridico e i rorenghi hanno garantito il rifugio dalla legge, non perchè estranei al diritto, ma perché ancora capaci di comprenderne il necessario significato dinamico che consente di non abbandonare mai il rispetto e la tutela della libertà.
La montagna è maestra di libertà, ogni abitante della montagna è pronto a difendere la propria libertà e quella del suo villaggio perché, chiunque affronti la maestosità della montagna, lo fa per ritrovare la propria libertà.
L’invito da cogliere è, quindi, di continuare anche oggi a guardare oltre la relazione giuridica imposta dal diritto, dove sussiste corrispondenza tra la condotta tenuta dalle persone e la risposta ordinamentale punitiva se questa si discosta da ciò che è ritenuto buono e giusto.
Il valore del patrimonio e l’attenzione alle risorse per preservarlo aiutano ad avvicinare l’estetica giuridica alla funzionalità della condotta prescritta, affinchè possa rispondere al benessere della persona umana e del suo ambiente (vita e cultura del popolo).
Festa della liberazione, quindi, intesa come dovere di ricercare un diritto attento al bisogno, proteso alla garanzia del benessere della persona umana, capace di comprendere e rispettare la ricchezza della dimensione identitaria, dove è radicata la consapevolezza che ogni singola persona conta come individuo ma nella sua unicità altro non è che parte del tutto della montagna.
Autoresponsabilità e solidarietà diventano così possibili senza dover essere imposte, gli abitanti diventano complementari e forniscono ancora una volta un esempio che il diritto liberale globale, se non può comprendere, può forse iniziare a guardare con interesse.
In fondo molto si parla di immigrazione e inclusione, ebbene montanari si può certamente diventare
L’identità montana risponde a una inclusione sostanziale, rinnega ogni formalità e, per tale motivo, l’inclusione non è fatta di etichette e diritti vantati, ma resta lenta, relazionale, fondata sulla condivisione di esperienze e saperi.
E’ un diritto che nasce da condivisione e deve avere il tempo (un tempo condiviso) per costruire le condizioni che consentano di fondare l’appartenenza, un diritto che ha quale obbiettivo il benessere della persona (l’uno), il benessere della collettività (il tutto).
Si supera così il comando del diritto efficiente, la valutazione strettamente aziendalistica dell’implementazione di diritti e libertà fondamentali, l’assillo della crescita del PIL.
Togliamo quella maschera imposta dal diritto liberale globale che tenta di nascondere la verità per cercarla e comprenderla nel silenzio del paesaggio rurale, dove proprio le lacune giuridiche consentono di cogliere il vero.
Il distacco tra crescita economica e benessere impone di impostare scelte volte a garantire la qualità della vita locale contro scelte economiche, territoriali, infrastrutturali non più riconosciute come portatrici di benessere (A. MAGNAGHI, Dalla partecipazione all’autogoverno della comunità locale: verso il federalismo municipale solidale, in Democrazia e diritto, 3/2006).
Il ritorno al paesaggio montano e al suo patrimonio assume, quindi, la natura di progetto scientifico e culturale che si oppone alle tendenze in atto di urbanizzazione del mondo, quali conseguenze che si stanno producendo come esito dei processi di finanziarizzazione dell’economia.
Politiche e azioni devono essere rivolte verso l’autosostenibilità che consenta crescita di forme di autogoverno attraverso la sottrazione progressiva ai grandi apparati tecno-finanziari e produttivi della globalizzazione economica degli strumenti del loro dominio omologante e distruttivo sul “diritto dei popoli”. (G DEMATTEIS, A MAGNAGHI, Patrimonio territoriale e coralità produttiva: nuove frontiere per i sistemi economici locali, in societadeiterritorialisti.it)
Si supera la crisi che sta vivendo la democrazia rappresentativa e diviene strumento di liberazione della vita individuale e collettiva dalle sovradeterminazioni e coazioni del mercato.
Un 25 aprile da leggere oggi come un monito ad avere meno per essere di più, una liberazione dalla governance economica dove benessere individuale e collettivo tornano a essere al centro delle politiche istituzionali locali.
Barbara Mameli